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martedì 10 novembre 2015

La musica come diversità di linguaggi.

Gli amatori degli aforismi amano dire: "La musica è (un linguaggio) universale e connette il mondo intero".
Personalmente ritengo invece che la musica è diversità di linguaggi, che probabilmente connette il mondo intero ma che, appunto per la sua diversità, non può essere definita "universale".
Questo non perché voglia procedere controcorrente ma semplicemente perché nel corso dei miei anni di studio ho imparato a guardare, e a sentire, la musica anche dal punto di vista storico; e storicamente il linguaggio musicale è nato e si è sviluppato diversamente nelle varie aree geografiche.
Per esempio, si riconosce abbastanza facilmente la musica orientale, africana o jazz, ma non è altrettanto semplice comprenderla, contestualizzarla e, a sua volta, eseguirla.

Le difficoltà iniziali possono essere superate se si studia il linguaggio di riferimento, se ne capiscono le origini e i meccanismi e si fanno propri; altrimenti si ha lo spiacevole inconveniente, sempre più frequente, di ascoltare musica eseguita senza criteri validi solo perché "piace" a chi la esegue.

Purtroppo il più grande difetto della moderna didattica è che oggi non insegna più la musica come diversità di linguaggi ma quasi esclusivamente come abilità tecnica e fanno credere che senza non si può nemmeno parlare di "musica". Ma discuterò ampiamente la cosa a suo tempo.

Per comprendere ora cosa intendo per "padronanza dei linguaggi musicali" è sempre utile il paragone con il linguaggio parlato.
Ogni lingua ha i propri accenti e la propria pronuncia e sono essenzialmente queste due componenti che possono aiutare ad intuire, pur senza comprendere ciò che effettivamente si ascolta, di da quale zona provenga: basti pensare allo spagnolo e affini, al cinese e affini, l'inglese e l'americano ecc.
Quando dalla lingua base (per esempio l'italiano) si inizia a studiare diversa (per dirne una, l'inglese) il problema principale non risiede tanto nella traduzione delle parole, ma piuttosto nella articolazione stessa delle frasi e dei periodi oltre, come si è già detto, nella pronuncia e nell'accentazione corretta delle parole.
Tuttavia, pur senza avere la perfetta padronanza della pronuncia (che a mio parere si acquisisce soprattutto nel paese relativo) si può comunque parlare e comunicare in una lingua diversa dalla propria rimanendo ugualmente comprensibili: ed è questo ciò che alla fine conta.

In musica accade qualcosa di analogo: esistono diversi linguaggi con i propri accenti e pronunce oltre naturalmente all'articolazione delle frasi musicali.
Sono queste differenze di base (che possono ovviamente essere molto più articolate e profonde) che permettono di riconoscere, come dicevo poc'anzi, la musica africana, orientale ecc.

Se a livello dilettantistico si possono "tollerare" alcune incongruenze sui linguaggi musicali (anche se personalmente non le tollero a prescindere), ben diverso è il discorso a livello professionistico.
Un professionista, anche di fama internazionale, non può permettersi di eseguire musica diversa allo stesso modo solo perché ormai ha un nome e nessuno ha il coraggio di contestarlo.
Si possono ascoltare su YouTube grandi musicisti classici che si improvvisano "jazzisti", jazzisti veri che si reinventano "classici" (categoria sicuramente peggiore della prima), pianisti che suonano J. S. Bach col pedale (Bach non ha mai scritto per pianoforte pur avendolo conosciuto) e tanto altro.
Sono differenze, queste, che chi sa ben ascoltare percepisce ma lo disturbano e non lo soddisfano perché viene a mancare il carattere proprio di quel determinato linguaggio.

Per rendere concretamente il contenuto di questo post, consiglio l'ascolto del trombettista Andrea Giuffredi; si può notare come in base alla diversità dei brani cambi nella maniera opportuna la modalità di esecuzione.









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